giovedì 12 luglio 2012

Sul documento della Commissione Diritti del PD

Allego una riflessione che mi è stata chiesta, sul tema in oggetto, per il sito web del Partito Democratico di Brescia. Buona lettura! ************************************************ Chi leggesse il documento finale redatto dal Comitato diritti del PD con l’intenzione di trovarvi un’enfasi rispetto ai temi inerenti la vexata quaestio della rilevanza giuridica del fenomeno delle coppie omosessuali resterà certamente deluso. Il documento, infatti, affronta uno spettro di questioni molto più ampio e lo fa con uno stile apprezzabile sin dalle prime battute. L’incipit della riflessione muove dall’esegesi, oggigiorno assai negletta, dell’art. 2 della nostra Carta costituzionale, il quale afferma due importanti principi. Anzitutto che il riconoscimento dei “diritti inviolabili dell’uomo” concerne quest’ultimo sia come singolo sia come persona nell’ambito delle formazioni sociali. Inoltre che, accanto al riconoscimento di tali diritti, è richiesto “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Con ciò, dunque, legando strettamente tra loro la dimensione dei diritti e quella dei doveri. Un’acquisizione teorica che di rado trova nella dialettica politica, e tanto più nelle lotte di taluni movimenti rivendicativi, una sua piena cittadinanza. Al punto che, già più di trent’anni fa, a pochi giorni dal suo tragico rapimento, Aldo Moro in un suo memorabile discorso alla Camera ebbe modo di ammonire circa il fatto che “questo Paese non si salverà e la stagione dei diritti si rivelerà effimera se non nascerà un nuovo senso del dovere”. E’ nel solco di tale riflessione iniziale che il documento della commissione presieduta da Rosy Bindi ha dipanato il proprio svolgimento, affermando peraltro che, pur nel doveroso sforzo di perseguire una massima convergenza, nell’ambito dei temi eticamente sensibili il dissenso per ragioni di coscienza, se seriamente motivato, deve trovare rispetto e possibilità di espressione. Un’affermazione, questa, che in verità non sempre ha trovato la conseguente applicazione, se solo si pensi a talune importanti vicende passate (su tutte, quella relativa al cosiddetto testamento biologico). Vi è poi un ulteriore stigma relativo all’approccio assunto dal documento. Esso è rappresentato dall’opzione preferenziale per un diritto mite, secondo la concezione zagrebelskyana, volta al superamento della storica e mai sopita dicotomia tra giusnaturalismo (iussum quia iustum) e giuspositivismo (iustum quia iussum). Ad avviso di chi scrive, peraltro, nell’affrontare questioni così particolarmente complesse e delicate, la mitezza dovrebbe connotare non soltanto il contenuto delle proposte, ma anche lo stile con le quali queste vengono esposte e sostenute. Quanti anatemi e toni obiettivamente sopra le righe abbiamo registrato, non solo in questi ultimi anni, laddove ci si è trovati ad affrontare snodi di rilievo biopolitico?! Significativo dell’imprinting del documento della Commissione PD è anche la scelta del lessico usato (e di quello omesso). Nelle otto cartelle in cui si articola la riflessione, ad esempio, l’espressione “genere” è usata in termini sinonimici a quella di “sesso”, ed è dunque scevra da quel significato ideologico della gender theory, di derivazione statunitense e di impianto relativistico, che tende ad estremizzare la distanza tra natura e cultura nell’ambito dell’identità sessuale della persona. Nel documento, inoltre, non figura il termine ‘autodeterminazione’, che pure una certa vulgata interpretativa, di impianto individualistico, vorrebbe far assurgere a principio di rango costituzionale: più opportunamente, si fa invece riferimento alla “responsabilità ultima della propria sorte”, che pure incontra i limiti – prosegue il documento – del non mettere in questione la libertà altrui e del non implicare posizioni di responsabilità da addossare ad altre persone e alla società. In merito al tema delle coppie di fatto, il documento si sofferma nelle battute finali e le riflessioni al riguardo sono consonanti con la disamina costituzionale fatta in apertura. Viene infatti ribadito che la pluralità di forme di convivenza (ivi compresa quella omosessuale) è espressione di un legittimo pluralismo, che trova nell’art. 2 Cost. il suo fondamento e che richiede conseguentemente il riconoscimento di diritti e di doveri. E’ pur vero che tali diritti e doveri non sono enumerati o esemplificati, ma il criterio in base al quale li si potrà in futuro enumerare o esemplificare è chiaramente tracciato: un conto, infatti, sono le forme di convivenza, che ai sensi dell’art. 2, in quanto espressione delle scelte personali dell’uomo, debbono trovare tutela, altro conto è l’istituto familiare di cui agli artt. 29 e seguenti, per il quale si ribadisce il ruolo di forma primaria della socialità. Il documento, pertanto, opera una scelta chiara, ma difficile. Chiara nell’affermare la necessità che i tema delle coppie di fatto trovi una sua definizione legislativa, con ciò respingendo la tesi minimalista che vorrebbe la questione relegata ai rimedi privatistici. E chiara, altrettanto, nel negare in radice la possibilità di aprire al matrimonio omosessuale, giacché esso verrebbe a confondere i piani, distinti, degli artt. 2 (persona) e 29 (famiglia come società naturale fondata sul matrimonio) della nostra Costituzione. Scelta tuttavia anche difficile, perché è dall’individuazione (che il documento, come detto, non svolge) dei diritti e dei doveri delle coppie di fatto che si potrà capire in che misura la distinzione teorica tra la tutela apprestata rispettivamente dagli artt. 2 e 29 rimarrà tale anche in pratica. In questo senso, penso che molti spunti siano ancor'oggi utilmente rinvenibili nel disegno di legge sui DI.CO., elaborato – per conto degli allora ministri Bindi e Pollastrini – dai rispettivi consiglieri giuridici (i proff. Balduzzi e Ceccanti: attuale ministro del governo Monti il primo; senatore del PD il secondo). Quell’ipotesi fu elaborata in un contesto politico assolutamente ostile a una discussione nel merito, ma la strada di apprestare tutela alla coppia di fatto, distinguendosi tuttavia dal modello francese dei PACS e riservando alla famiglia fondata sul matrimonio alcune prerogative fondamentali (tra le quali l’adozione), permane tuttora apprezzabile.